Damiana Patrimia 12/02/2019

Sita a pochi chilometri dalla città, a 300 metri a sinistra della
via Adriatica, la chiesetta romanica di S. Maria d’Aurìo dopo
oltre due secoli di desolante abbandono e rovina finalmente
restaurata nel 1991 è stata restituita al culto. Eretto tra l’XI
e XII secolo dal normanno Conte Accardo, questo tempio
sorse sull’area di un precedente insediamento basiliano ed è
documentata la sua esistenza anteriore alla chiesa e al convento
dei Santi Niccolò e Cataldo (1180). A volte dalle S. Visite dei
presuli leccesi la chiesetta viene citata col titolo di S. Maria
di Costantinopoli oppure di S. Maria della Torre dei Morelli,
ma sempre tutti la conobbero col titolo di S. Maria d’Aurìo,
ossia del casale di cui non resta più niente, cosi denominato
dal greco Layrion, che significa “piccolo cenobio”.
Il casale d’Aurìo, presso il quale i Leccesi e gli abitanti dei
paesi limitrofi si recavano per festeggiare Lu Riu, la pasquetta,
viene citato da un diploma emanato nel 1181 dal re Tancredi, e
nel tempo conobbe periodi di frequenza e di abbandono che fu
definitivo nel XV secolo per le incursioni turche e piratesche
provenienti dal vicino Mare Adriatico.
La facciata di questa chiesetta, monocuspidale, possiede un
portale fiancheggiato da due leoni marmorei, assai corrosi,
privi delle colonne che sorreggevano un piccolo protiro di cui
oggi nulla resta.
Il portale è ornato da un’architrave a fregio geometrico, sulla
quale appare una lunetta che anticamente doveva contenere
un’immagine affrescata della Vergine, di cui assai rovinata
resta la sinopia che appare illeggibile. Analoga lunetta, in
identiche condizioni, è sita sulla porta della sagrestia, di epoca
posteriore.
Sopra il portale si apre un piccolo oculo, indi la cuspide ornata
di arcatelle che proseguono, in alto, lungo il perimetro del
tempio. La chiesa di S. Maria d’Aurìo fu eretta probabilmente
con conci recuperati da qualche altra costruzione sacra, e
di ciò ne fa probante testimonianza una serie di anomalie
architettoniche che si riscontrano nella parete di sinistra, ove
in basso si notano alcune arcatelle che, per essere ivi poste,
non hanno alcun senso. E poi si nota che la costruzione fu
realizzata con conci di dimensioni diverse, tratti dalle vicine
cave di pietra leccese. È evidente che nei secoli la chiesa
ha subito diversi interventi e rifacimenti. Infatti per ragioni
statiche furono ricostruiti due piedritti sul lato del portale ed
altri due furono posti a sostegno del muro a sud, al quale si
addossa un vano a pianta quadrangolare che svolse le funzioni
di sacrestia, e di ciò ne fa probante testimonianza un tratto
degli archetti pensili che appaiono in alto, sul muro destro del
tempio, che oggi è in parte incluso dalla sacrestia, realizzata

con pietre informi e bolo ed è coperta da una volte a botte,
mentre la chiesa è coperta da capriate lignee ed embrici.
L’interno del tempio è a tre navate con quattro colonne
monolitiche libere e quattro con funzione di pilastri addossate
al corpo della fabbrica. I capitelli delle quattro colonne libere,
che per fattura si esemplano a quelli della non lontana Abbazia
di S. Maria di Cerrate, presso Squinzano, non possiedono motivi
decorativi. Quelli che ornano le due colonne a destra sono più
elaborati e rappresentano figure simboliche di chiara marca
medioevale. Gli altri due, invece, appaiono classicheggianti,
essendo la decorazione floreale assimilabile allo stile corinzio.
Le colonne sostengono degli archi acuti, a sesto rialzato , e
nelle absidi laterali appaiono finestrelle a strombo, ora chiuse.
Come dicevamo, un oculo si apre sulla cuspide della facciata
proiettando la luce nell’abside centrale di questa chiesa, di
forma basilicale, dotata di un unico altare, alquanto rovinato,
in pietra leccese. Un tempo tutto l’ambiente interno era
affrescato, ma delle pitture non ci è giunto alcunché. Tracce
di iscrizioni greche appaiono sulle colonne e sulla facciata
posteriore del tempio. Usciti all’esterno, noteremo sul lato
opposto della facciata, in alto a destra, il piccolo campanile a
vela, da tempo immemorabile privo di campana.
Il casale e la chiesa d’Aurìo appartennero dapprima alle
Benedettine di Lecce, indi all’Abbazia di S. Maria di Cerrate,
poi via via alla Chiesa, al cardinale Godi di Napoli, che a sua
volta ne fece dono alla Casa Santa di Loreto degli Incurabili,
di Napoli. Chiesa e casale d’Aurìo furono alienati a Giovanna
Palma, vedova Leanza, di Brindisi, la quale vendette il tutto
al Cav. Raffaele Calilli di Lecce nel 1186, anno in cui il
tempio era in rovina e a nulla servirono le petizioni del
Calilli, di Cosimo De Giorgi e di Niccolò Foscarini, al tempo
ispettori ai monumenti. Nella seconda metà del Novecento
la nostra chiesetta e l’ampio territorio circostante, con
masseria, apparteneva ai Conti Franco di Lecce, il cui ultimo
possessore, Maria Peluso vedova Franco, ne fece dono il 21
novembre 1971, con relative pertinenze, all’Amministrazione
Provinciale di Lecce con l’obbligo di realizzare i restauri.
Passarono gli anni e finalmente dopo tante lungaggini
burocratiche il restauro fu compiuto nel 1990, sicché il
21 Aprile di quell’anno Mons. Cosmo Francesco Ruppi,
Arcivescovo Metropolita di Lecce, riconsacrò la chiesetta
sotto il titolo di S. Maria della Resurrezione del Signore in
Aurìo. Nell’occasione venne distribuito e presentato il mio
libro monografico sulla chiesa di S. Maria d’Aurìo che al pari
delle altre chiese romaniche possedeva tanti affreschi murali,
come si è detto del tutto scomparsi. Tuttavia questo tempio,
sul retrospetto, possedeva una vera opera d’arte realizzata
nel 1458 da Bartolomeo Vivarini. Si trattava di sette pannelli

lignei dipinti a tempera, di cui ne sono restati soltanto tre, ossia
quelli centrali raffiguranti la Vergine col Bambino, con a destra
S. Scolastica e a sinistra S. Benedetto. L’inclemenza del tempo,
l’aggressione dei tarli e il naturale scrostamento allarmarono
tanti studiosi, ma allorché il Ministero dei Beni Culturali
acquistò ciò che restava del polittico nel 1926, pagandolo ben
35.000 di lire, si dispose il restauro che sarebbe stato effettuato.
Intanto i tre pannelli del Vivarini furono esposti nel 1927 presso
il Museo Nazionale di Taranto, e nell’anno successivo l’opera
fu trasferita a Bari, dopo il restauro effettuato da Duccio Brizi
venendo esposta presso la Pinacoteca provinciale di quella
città, dove tuttora si conserva. I pannelli di S. Maria d’Aurìo
dovevano però ritornare a Lecce, ma nessuno li ha reclamati,
e a nulla sono valse le mie sollecitazioni presso il Comune e la
Provincia di Lecce perché ciò avvenisse, alla faccia di Lecce
sedicente città dell’arte.